statodellafollia-717x1024di Anita Eusebi [uscito su L’Unità il 3 luglio 2014]

«Ma dove mi stanno portando adesso, in manicomio? I manicomi sono chiusi, io sapevo». Luigi Rigoni ha vissuto sulla propria pelle l’inferno degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e la sua testimonianza è il filo conduttore di Lo Stato della follia, il film documentario del regista Francesco Cordio che denuncia l’orrore degli OPG, integrando la narrazione di Rigoni con i filmati realizzati dallo stesso Cordio durante i sopralluoghi effettuati a sorpresa negli OPG nel 2010 dalla Commissione Parlamentare d’Inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Servizio Sanitario Nazionale, presieduta da Ignazio Marino.

Lo Stato della follia, passato in tv mercoledì 2 luglio a DOC3 il contenitore per documentari della terza rete Rai, è un pugno in faccia a chi calpesta i più elementari diritti, costituzionalmente garantiti, di ogni essere umano. Uno spietato atto di accusa, una richiesta di verità e giustizia. Ed è una carezza di rispetto, alla dignità di vite dimenticate negli OPG, agli sguardi spenti dall’abuso di psicofarmaci, da celle di isolamento e letti di contenzione. «L’impatto è stato devastante – afferma Cordio – tornare a casa da quei posti è stato un incubo, carico di urla, strazi, odori, sofferenze, occhi e mani che non si scollavano di dosso. Ogni volta uscire era insieme un sollievo e una condanna: il pensiero impotente di lasciare quelle persone alla loro non-vita». «Ciò che vedemmo destò in noi sconcerto, turbamento e profonda indignazione», dichiara Marino. «Il film di Cordio è un lavoro importante perché rompe il velo del silenzio e dà voce a persone dimenticate da tutti. E lo fa da testimone di una storia».

Le immagini sono crude, la realtà lo è ancora di più. Immagini che lasciano addosso un senso terribile di rabbia e impotenza, di vergogna e dolore, per lo stato di massimo degrado da un lato, il senso profondo e drammatico di abbandono, desolazione e umanità dall’altro. «Signori del Senato apritemi la porta vi devo parlare, mi trattano male, tutti devono sapere la verità su cosa succede qua dentro», grida qualcuno reclamando l’attenzione della telecamera, mentre gli agenti di sicurezza corrono svelti a chiudere le celle, a zittire, ad allontanare. C’è chi invoca il padre perché lo venga a salvare, «sto a mori’ qua dentro, io non so’ pericoloso» dice. «Ero un bambino normale».

Persone. Restano in OPG con il marchio “pericoloso per sé e per gli altri”, anche se non hanno mai ucciso nessuno. Per aver preso a calci una slot machine. O per una rapina di settemila lire compiuta più di vent’anni fa, con la mano sotto la maglia a mo’ di pistola. Misure di sicurezza prorogate all’infinito che rispondono a perizie psichiatriche che neanche si trovano più. E accanto alla presunta pericolosità, l’incapacità di intendere e volere, «una concezione che dopo Freud è stata superata dalla scienza», afferma lo psichiatra Vittorino Andreoli. Forse. Comunque non certo dal Codice Penale. E la responsabilità di eventuali crimini va tutta alla malattia, come se la persona non esistesse nemmeno. «Ma Van Gogh quando dipingeva era lui a dipingere, o la sua follia? E Proust, Saba, Pavese, Dick, Campana, erano loro a scrivere o la loro depressione, la loro schizofrenia?». Queste le parole sullo sfondo della voce narrante di Rigoni, tratte come altre ancora da “Il Dialogo di Marco Cavallo e il Drago” scritto da Peppe Dell’Acqua, Angela Pianca e Luciano Comida.

In OPG c’è chi resiste vent’anni, chi tre giorni. C’è chi sopravvive all’inferno, e chi si arrende. «Nel caso passassero settimane senza che nessuno si impiccasse, veniva quasi da chiedersi come mai? – dice Rigoni – Che ogni tanto qualcuno si impicchi è il minimo che possa accadere in luoghi come questi». «Legati come salami ai letti di contenzione… Fa quasi sorridere se non ci fosse da piangere» commenta un ragazzo tra gli internati, con una lucidità, un’ironia e una rassegnazione che ferisce più delle urla in sottofondo. «L’uomo è un animale che può provare ad abituarsi. Ma qua viene messo a dura prova», ribadisce con grande dignità. E fa male sapere che proprio lui di lì a poco si è tolto la vita. Il film Lo Stato della follia è dedicato a lui, “a tutti quelli che messi a dura prova non sono riusciti ad abituarsi”. Ospedale Psichiatrico Giudiziario, un’accozzaglia di tre parole, un eufemismo d’origine lombrosiana, laddove di luogo di cura non v’è traccia, né c’è nulla di psichiatrico se non la follia di continuare a mantenere ancora in piedi istituti di questo tipo, “luoghi orrendi, istituzioni che vorrebbero curare la malattia e contenere la pericolosità, ma che come tutte le istituzioni totali la malattia la riproducono, perché invece di essere posti di cura sono fabbriche di malattia”.

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