finestredi Vito D’Anza.

Ci sono parole o espressioni usate, o spesso abusate, che ormai hanno perso senso e significato, e risuonano vuote alle orecchie di tanta gente. Non in assoluto certo, si tratta di uno “svuotamento” che dipende da quante persone le pronunciano e dal senso che di volta in volta viene attribuito a tali parole. Nel caso in questione mi riferisco a una certa psichiatria, e a certi psichiatri. Parole dette quasi avessero un senso liberatorio immediato e risolutivo, come se fossero magicamente capaci di mettere tutti d’accordo, di conciliare tra loro prassi (e teorie) le più disparate e spesso contrapposte. L’una e l’altra psichiatria, dalle diverse facce e dagli opposti significati.

Mi riferisco a espressioni come “lotta allo stigma”, o “integrazione socio-sanitaria”, o ancora “la persona al centro della cura”, e così via. Mi limito alla prima, lotta allo stigma. In particolare prendo spunto da un articolo apparso su un quotidiano nazionale a firma Claudio Mencacci. Parlarne senza dire, senza argomentare cosa sia lo stigma e come si intenda contribuire concretamente alla sua antagonizzazione, implica il rischio di un sottinteso pericoloso: «ne denunciamo l’esistenza ma tanto non c’è niente da fare». Do per scontato che nessuno, con un po’ di sale in zucca, possa realmente pensare che per ridurre lo stigma basti una campagna televisiva, o giornalistica, o una serie di manifesti giganti nelle grandi città, o ancora un dibattito organizzato dai servizi o dagli specialisti del settore, magari durante la giornata mondiale per la salute mentale. Questo può tutt’al più servire a tacitare la coscienza di qualche istituzione, ma non a cambiare davvero qualcosa.

Molti si prodigano nel cercare di convincere l’opinione pubblica che i matti sono in fondo brave persone, esseri umani come tutti gli altri, che non sono colpevoli e bisogna trattarli con benevolenza, che sono soggetti di diritti, che la sragione è parte della ragione, la follia ci appartiene, ecc. Ma spesso capita, purtroppo, che queste affermazioni puntino più a nascondere che a rivelare. Spesso la denuncia dello stigma tende infatti a nascondersi, più o meno consapevolmente, dietro a una sorta di “innocenza”, quasi fosse esente da qualunque tipo di coinvolgimento, come se il fatto che lo stigma esista (ed esiste) dipendesse sempre da qualche altro soggetto, e mai e in nessun modo da chi “denuncia”…

Viene da chiedersi: ma gli psichiatri, in particolare un certo tipo di psichiatri e di psichiatria, sono consapevoli che un giorno sì e l’altro pure sono in qualche modo essi stessi soggetti produttori di stigma nelle pratiche quotidiane, a volte in maniera anche più incisiva di altri fattori?  Come possono poi essere al contempo anche validi e credibili sostenitori della lotta allo stigma?

In altre parole, se lo stigma si fonda sulla presunta pericolosità dei matti, sulle paure che ciò ancora oggi evoca e alimenta, se gli psichiatri e i servizi credono che questi possano ordinariamente essere legati a un letto, anche per molte ore o giorni, perché allora un comune cittadino non dovrebbe averne paura? Se gli specialisti ritengono necessaria la contenzione fisica dei matti negli SPDC o la loro reclusione negli SPDC (rigorosamente con le porte chiuse) perché un comune cittadino dovrebbe invece sentirsi tranquillo nell’accoglierli come vicini di casa o sedere accanto a loro in un locale pubblico? O ancora, gli specialisti che pensano che i matti per “curarsi” debbano stare per anni e anni in strutture residenziali apposite, oppure in Centri Diurni esclusivi per loro, come possono poi essere al tempo stesso anche promotori di una psichiatria di comunità, di percorsi di cura territoriali?

Insomma, a mio avviso i maggiori produttori di stigma sono spesso proprio i servizi, i cattivi servizi, che fondano le loro pratiche sull’idea che i matti debbano essere separati dai sani, che debbano essere collocati per lungo tempo, se non per una vita intera, nel circuito psichiatrico. Ecco perché non mi hanno mai convinto le campagne contro lo stigma promosse dagli addetti ai lavori, che da un lato lo producono e dall’altro lo combattono. Questo è il punto, e se la questione viene ignorata allora tanti bei discorsi restano parole vuote, buoni propositi forse, ma assolutamente contraddittori, poco credibili e senza alcuna efficacia.

2 Comments

  1. Allora bisogna anche ammettere che la percentuale dei servizi che produce stigma è altissima. Spesso si tende a trovare al di fuori dei propri comportamenti la causa del problema e in questo caso addirittura si palesano corsi e corsetti a mò di facciata (sempre meno a dir la verità, sostituiti da approcci efficentisti che non considerano nemmeno il problema); ma se lo stigma è anche figlio dell’ignoranza perchè proprio i professionisti ne sono i maggiori artefici?

  2. Occorre considerare che i servizi publici a codice invariato possono diventare forme di psichiatria di regime, o meglio forse, spesso nel sociale si innestano ideologie perverse psicosociosanitarie che accerchiano e stalkerizzano le persone esproproiandole dei propri diritti sulla base di teorie psicologiche, social educative, vere e proprie sciocchezze.
    I servizi psichiatrici a volte sono luoghi di delegittimazione delle persone e di degrado.
    Occorrerebbe una vera e propria rivoluzione culturale.
    L’intreccio perverso della repressione tra inquisitori, operatori della repressione e manipolazione e cultura della supremazia del potere dell’apparato publico sulle persone è dura a morire.
    Negli ultimi decenni c’è stata la chiusura della manicomi per far diventare la società un manicomio a cielo aperto.
    Ci sono troppi impiegati delle psicostronzate e della repressione. Ma ne abbiamo veramente bisogno come cittadini?

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