pesce-rossoDi Carmine Schettini

«Un uomo è in cucina. Suona il telefono. Si sposta per rispondere ma urta la vasca col pesce rosso, che cade e si rompe. L’uomo comincia a setacciare il pavimento con le mani e si capisce allora che non vede. Cerca, cerca…non lo trova. Mentre il pesce saltella poco più in là. È disperato. Allora vede un’altra soluzione: cerca col tatto lo scarico sul pavimento, si toglie la camicia e lo tappa velocemente. Poi velocissimo riempie il pavimento di acqua. Quando ha finito si siede a terra. Distrutto. E aspetta. Qualche secondo dopo si vede arrivare il pesce: ora può di nuovo nuotare e si infila sotto la sua mano.»*

Sono piuttosto emozionato. Sono molto emozionato direi.

Avrò affrontato l’argomento nel modo giusto? Mi tremerà la voce? Molti dei presenti li conosco bene, altri un po’ meno. Stamattina arrivando molti mi hanno sorriso, ho visto che erano sinceri, ne sono sicuro. Questi farmaci che prendo adesso mi aiutano a capire meglio il mondo. Nonostante, sono emozionato. Ce ne sono ancora molti che quando mi vedono così dicono: «È ansioso, forse non ha preso i farmaci», è perché sono un paziente psichiatrico; io invece mi sento semplicemente emozionato e i farmaci li ho presi.

Casomai potrei parlare un po’ rallentato proprio perché li ho presi. Comunque meglio rallentato che con la bava come era con quegli altri farmaci di una volta: quando parlavo con una ragazza mi cadeva tanta bava, ero terrorizzato. Vabbè che si dice che quando una donna ti piace sbavi per lei, ma nel mio caso…ecco se facessi più di una volta questa battuta ci sarebbe il rischio ancora che qualcuno si chieda se non sia il caso di risistemare un po’ l’umore, farmacologicamente intendo. Se la stessa battuta la fanno i normali invece si dice che sono di “buon umore”. Invece io sono psicotico. Anzi no: io sono una persona affetta da psicosi. Anzi, meglio: quando tra me e il mondo l’esperienza non è abbastanza comprensibile e diventa traumatizzante io tendo a organizzarla in modo psicotico. Devo usare questo modo complicato per definire il mio stato per poter recuperare il mio nome e cognome invece di essere “uno psicotico”.

Con i farmaci che prendo e con quello che ho combinato alla prima crisi, in altri tempi sarei andato in manicomio. Adesso il manicomio non c’è più. È stata una svolta. Per un po’ è sopravvissuto l’elettroshock ma ora sembra scomparso anche quello.

Da alcuni anni i miei frequentano un gruppo nel Centro di Salute Mentale insieme ad altri genitori che hanno figli con i miei stessi problemi e quindi si ritrovano tutti ad avere gli stessi problemi nei rapporti con noi figli. Non è un gruppo terapeutico. È un gruppo che attraverso la condivisione delle esperienze di ciascuno vuole generare un nuovo modo di relazionarsi sulle problematiche della sofferenza mentale in modo da portare poi quelle modalità anche in casa nel rapporto con i figli.

Mi hanno raccontato che ogni volta che una nuova coppia entra nel gruppo esordisce sempre con lo stesso vocabolario:

Necessità di controllo sui figli riguardo all’assunzione degli psicofarmaci, al limite somministrandoli di nascosto, necessità di prolungare la durata dei ricoveri, proteste contro la riforma psichiatrica («Ci sta Basaglia a casa con noi quando nostro figlio si agita?!»), domande sulla genetica come unica causa della malattia su cui non c’è niente da fare, il racconto della tragedia della prima crisi come fosse ancora ieri, la nostalgia senza speranza di «Quando noi figli stavamo bene», la cronicità, la incomprensibilità di certe frasi (i deliri) o di certi comportamenti, la risonanza magnetica funzionale, la pericolosità, il deficit cognitivo inevitabile, il riconoscimento precoce dei sintomi per poterli neutralizzare.

Poi passano gli anni (i miei ci vanno da dodici anni nel gruppo) e adesso il vocabolario è cambiato. Adesso è pieno di parole come:

Sforzarsi di comprendere parlando con questi figli, ridiscutere la paura sempre alle porte di una violenza fisica magari mai avvenuta, le reazioni fisiche possono essere l’espressione estrema di una ferita, la speranza di fare qualcosa con noi e con i curanti, cercare di capire le cose dal nostro punto di vista, il coraggio di non arrendersi nelle situazioni critiche, maggiore ascolto, maggiore possibilità di esprimere in gruppo il dolore, il riconoscimento dell’apporto di ciascuno dei componenti della famiglia al miglioramento o al peggioramento dello stato di salute, eccetera eccetera.

Il cambiamento del vocabolario vuol dire un cambiamento della cultura, una rivoluzione, un rovesciamento dei significati antichi, proprio come nella riforma psichiatrica.

Ma non sono mica tutte rose e fiori…tutt’altro.

Nel corso di questi anni in gruppo i nostri genitori hanno discusso, litigato, ascoltato, pianto, espresso tutte le ambiguità rispetto alle cure e alla sofferenza loro e soprattutto di noi pazienti.

Hanno spesso attaccato i nostri curanti per qualunque problema, hanno ostacolato strenuamente progetti per il nostro inserimento nelle Comunità Terapeutiche e poi con altrettanto impegno sono riusciti a favorirli; ci hanno aspettato alla fine di quella esperienza per riaccoglierci in casa o lasciarci di nuovo andare in Casa Famiglia, dopo aver fatto i conti con vissuti di nostalgia, di espulsione, di accoglienza, sostenuti da una valutazione realistica ma sofferta di tutti i cambiamenti avvenuti in quegli anni in gruppo e delle cose ancora da fare e anche di quelle che forse non potremo sperare di fare mai; hanno fantasticato di essere accoltellati nel sonno da noi figli e poi, al contrario, di poterci un giorno abbracciare senza paura; con tutta la rabbia e il dolore per quell’esito tragico delle nostre storie familiari.

Hanno ridiscusso i loro ruoli come coppia coniugale attraverso le loro vicende di coppia genitoriale. Alcuni hanno fatto anche una psicoterapia individuale, altri hanno fatto una terapia di coppia per migliorare le funzioni genitoriali. Lo so, per qualcuno la speranza non è ancora arrivata.

Ma purtroppo il nuovo vocabolario (la nuova cultura, come abbiamo detto) non è che ha fatto morire quello vecchio una volta per tutte; in ogni momento in cui le difficoltà e le paure e le ferite tornano a livelli intollerabili, come per noi pazienti ritornano le crisi, così da parte dei genitori i vecchi vocaboli possono tornare col fascino di una volta, che fa sembrare le nuove posizioni relazionali solo segni di una debolezza momentanea a fronte di decisioni dure e tempestive da intraprendere. Il pensiero custodialistico rialza la bandiera. Ripetiamo:

Necessità di controllo maggiore sull’assunzione degli psicofarmaci, al limite somministrandoli ad insaputa dei pazienti, la genetica come concausa della malattia su cui non c’è niente da fare, la mancanza di speranza per via della ineluttabile cronicità, l’irrealtà del delirio o l’incongruità di certi comportamenti, la risonanza magnetica funzionale, la pericolosità sociale, il deficit cognitivo ingravescente, il riconoscimento precoce dei sintomi per poterli neutralizzare, eccetera eccetera.

Ma non vi sembra che questo era pure il vocabolario del manicomio? E così anche tutti gli operatori della salute mentale c’hanno dovuto fare i conti e ribaltarlo. Hanno dovuto riattraversare criticamente certe posizioni culturali dominanti, opporvisi opponendosi anche a parti di sé, per poter prendere nuove posizioni nella relazione terapeutica, per poter guardare agli stessi strumenti terapeutici in modo diverso o inventarne dei nuovi. Hanno dovuto riconoscere la differenza tra una persona e la diagnosi, hanno dovuto instillare la speranza dentro la paura della cronicità, hanno dovuto ridiscutere i significati delle costruzioni deliranti anche dal versante del limite della loro comprensione, fare i conti con la paura (che non è da sottovalutare) per la oggettiva pericolosità fisica di certe situazioni cliniche a volte finite tragicamente, alimentare il coraggio di riprovarci “cronicamente”, qui ci vuole, cioè senza arrenderci.

Ma pure qua non sono tutte rose e fiori…

Un genitore che ha entrambi i figli in cura presso il Centro di Salute Mentale dove vado pure io, e che è quello che più di tutti ha faticato per passare dalla ricerca della molecola perfetta per far rinsavire i figli, al tentativo di incontrarli proprio là dove non li capiva, recentemente, dopo circa otto anni, ha chiesto uno psichiatra per sé. Si è accorto a un certo punto che il tentativo di capire le vicende dei figli e di poterli aiutare, invece che averne solo paura, si era rivelata un’occasione per capire e migliorare molte cose che non aveva mai visto né tantomeno capito di sé e di cui aveva anche paura: «Un’occasione della vita» – sono le sue parole esatte, riferendosi alla maturazione personale avvenuta attraverso purtroppo l’esperienza dolorosa dei figli.

È questo un esempio che rende bene l’idea che, il fatto che non ci sia più da qualche parte, magari dentro un bel parco, un posto per i matti e qui fuori invece tutti i sani, non vuol dire che sono cambiate semplicemente le tecniche terapeutiche, ma che è stato rivoluzionato il modo di pensarci: non ci sono più quelli tutti matti e quelli tutti sani. Possiamo tutti mettere insieme gli aspetti più solidi e quelli più fragili per contribuire a creare un contesto comunitario prevalentemente piacevole da vivere, oppure impegnarci per un contesto che fa impazzire chiunque, perché sicuramente a me non fa bene sospettare troppo spesso degli altri, reagire con la rabbia per qualunque ferita o pensare che non vale la pena di vivere. Ma sono sicuro che neanche ai sani fa bene fingere sentimenti per motivi utilitaristici o essersi addomesticati all’ideologia del politicamente corretto. Loro sentono i nostri “non-senso” ma noi vediamo le loro dissociazioni, che nel loro caso però si chiamano “buon senso”.

E lo voglio ridire che non sono tutte rose e fiori.

Adesso, dopo parecchi anni di cure, psicoterapia, farmacoterapia, ricoveri volontari e obbligatori, tre anni di comunità terapeutica, ho cominciato un tirocinio di lavoro. Ricevo un sussidio. Sono iscritto al collocamento alle liste speciali (anche se mi hanno detto che può essere più vantaggioso passare per le liste normali). Ma le possibilità terapeutiche si vanno diradando, perché il personale è sempre più sotto organico, ho paura che taglino i fondi per la Salute Mentale, e la cultura dominante è sempre più una cultura della vittoria a tutti i costi e della vergogna per le fragilità, e noi possiamo diventare di nuovo vuoti a perdere (non paghiamo neanche il ticket), solo invalidi civili, e lo sappiamo che l’handicap è un fatto contestuale. Se rimango tutto il giorno a casa senza lavorare alla lunga divento triste, poi nervoso, poi do un pugno al muro…non mi voglio ricoverare per questo o aumentare i farmaci. Lo so, i dottori non lo farebbero, ma pure loro risentono di questo vento culturale imperante e non vorrei si scoraggiassero…so che uno psicoanalista famoso ha detto che le speranze dei curanti per i pazienti sono inestricabilmente connesse alle speranze che hanno per loro stessi.

Ma se si riducono le opportunità di cura, il contesto culturale si fa ostile e la solidarietà diventa malata terminale, cominciano ad aumentare i sintomi, e allora aumentano i farmaci e poi subito dopo i ricoveri: isolati in casa o dentro le cliniche…sarebbe un altro manicomio.

Ecco, ho cercato a modo mio di sottolineare la necessità di custodire attentamente il cambiamento culturale che il pensiero di Basaglia e la prassi conseguente hanno comportato.

Ma stiamo con gli occhi aperti, o il pesciolino per salvarsi dovrà infilarsi nello scarico!

* libera trascrizione del corto The fish and I di Babak Habibifar.

Carmine Schettini è Medico Psichiatra del Dipartimento di Salute Mentale ASL Roma 2 e Psicoanalista Isispé. Quella riportata è una relazione letta in occasione della Conferenza Isipsé (Istituto di Psicologia del Sé e Psicoanalisi Relazionale) “Maga, Santa, Strega, Matta”. La devianza e il dolore mentale. Omaggio alla memoria di Franco Basaglia a 40 anni dalla Legge 180 tenutosi a Roma il 26 Gennaio 2019.

Un contributo in vista della Conferenza Nazionale per la Salute Mentale.

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