schermata-2021-07-01-alle-09-44-20di Antonio Luchetti, psichiatra, Bolzano

Il 28 maggio scorso l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha pubblicato le Linee guida sui servizi di salute mentale di comunità. Il sottotitolo recita: “promuovere approcci centrati sulla persona e basati sui diritti”.

Alla guida si affiancano sette pacchetti tecnici per lo sviluppo operativo e fattuale di servizi di salute mentale per la crisi, ospedalieri, comunitari, di sostegno tra pari, abitativi e per lo sviluppo di reti complete di servizi.

L’OMS da circa un ventennio ha abbandonato un paradigma di cura basato principalmente sul binomio diagnosi-terapia per approdare a una visione più complessa, che ovviamente non rinnega la clinica e la farmacologica, ma che si basa sul concetto di recovery (tradotto “recupero/rimonta/ripresa”), per un approccio di cura centrato sulla persona e sui contesti e che prende le distanze da ogni tipo di semplificazione (che non può descrivere l’umana esistenza) e che intende garantire non forzatamente l’assenza della malattia ma l’integrazione del soggetto nei contesti dei luoghi che abita.

Mentre l’OMS percorre questa strada molti servizi (socio)psichiatrici continuano a basare il loro operato su una comprensione clinica di recupero o, peggio, sulla convinzione che tale recupero non sia raggiungibile da parte delle persone con una disabilità psichica.

Ma recovery significa ottenere il controllo della propria identità e vita, a prescindere dal sintomo, vivere una vita che abbia una speranza per il soggetto, sentirsi parte integrante della società attraverso lavoro, relazioni e impegno nella comunità: uno o più di questi strumenti e non solo ospedale, ambulatorio e farmaco.

Raggiungere la recovery personale significa riuscire a vivere bene in assenza –  ma anche in presenza – del proprio disturbo psichico contrastando contemporaneamente i suoi esiti: isolamento, povertà, disoccupazione, discriminazione e morte.

Ma il disturbo psichico, come è stato ampiamente dimostrato – e non è un caso che proprio l’OMS continua a sostenere lo sviluppo di reti comunitarie – non incontra solo ambulatori e bravi psichiatri, che sanno maneggiare bene sistemi diagnostici e terapia – ma soprattutto costellazioni di servizi in grado di garantire prossimità, di leggere i bisogni veicolati dal soggetto (anche attraverso la malattia) e fornire uno spazio in grado di dare risposte per la costruzione di vite in grado di partecipare agli scambi e garantite nella negoziazione e non nell’ozio.

I trattamenti, in quest’ottica, non saranno trattamenti decisi e imposti dalla medicina ma trattamenti negoziati e co-progettati con il soggetto, su un tavolo orizzontale che sappia cogliere i suoi bisogni, anteporre diritti ad assenza di sintomi e rispettare le sue scelte anche laddove queste non siano condivise dai servizi socio-sanitari ma in grado così di restituire responsabilità alla persona in modo che possa farsene carico.

L’intervento su tale complessità non sarà quindi solo medico (intervento spesso necessario per favorire una maggiore tenuta della persona) ma verterà su aree – diritti – specifiche che corrispondono a riconosciuti determinanti sociali di salute: casa, istruzione, lavoro e socialità.

La precarietà abitativa e l’assenza di una casa hanno un effetto diretto negativo sulla salute mentale e riproducono meccanismi di esclusione. È ampiamente dimostrato che avere una propria abitazione è fattore protettivo contro la mortalità, compreso il suicidio, ed è condizione imprescindibile per il raggiungimento di una recovery dove partecipazione, presa di posizione e indipendenza diventano elementi fondativi. Avere un’abitazione da cui partire è riconoscere che solo da un luogo che appartiene al soggetto questo può partecipare pienamente al fuori.

Servizi sociosanitari che agiscono nella città, e che riconoscono tale determinante come fondamentale al raggiungimento di un buon recupero, non possono che adoperarsi per organizzare territori e pratiche affinché questo diritto sia garantito.

L’istruzione è elemento essenziale per lo sviluppo del soggetto sia sociale che economico e ha un impatto elevato su “salute, occupazione, povertà e capitale sociale”.

Avere un lavoro retribuito non solo può fornire stabilità finanziaria e facilitare l’accesso a bisogni primari e radicali (come l’abitazione) ma anche contribuire a migliorare la vita dei soggetti, strutturare il loro quotidiano, contribuire a un senso di realizzazione personale e alla vita comunitaria contrastando direttamente meccanismi di esclusione.

Favorire processi di presa in carico che comprendono la formazione e l’inserimento lavorativo con il fine ultimo della restituzione del soggetto alla cittadinanza significa riconoscere come obiettivo della cura tale restituzione e come luogo non l’ambulatorio (e l’ospedale, o non solo) ma i luoghi dove avvengono gli scambi tra i soggetti tutti e in fin dei conti la rete sociale alla cui partecipazione di chi fa difficoltà va accompagnato, sostenuto; rete riconosciuta come strumento terapeutico, capace di contrastare stigma, isolamento ed emarginazione.

Mentre scrivo il Dipartimento di Salute Mentale di Trieste e Centro Collaboratore dell’OMS per la ricerca e la formazione in salute mentale, una delle realtà a lungo citata nella guida di cui ho parlato come esempio di reti complete di salute mentale a cui guardare per organizzare servizi vicini alla vita delle persone, è sotto attacco. L’esperienza di salute mentale territoriale più avanzata in Italia viene aggredita da ideologie politiche e psichiatriche.

La cultura della semplificazione dell’esistenza è poco attenta alle indicazioni dell’OMS ( e alle pratiche di buon senso si direbbe) e ignora le linee che il governo italiano ha tracciato recentemente nella legge 77/20 “misure urgenti in materia di salute” rispetto allo sviluppo necessario e non più procrastinabile – evidenziato con chiarezza nel periodo pandemico  – di servizi di salute pubblica di prossimità domiciliari e di presa in carico forte soprattutto per le malattie croniche e invalidanti (e tra queste i disturbi psichici).

Dovere etico e buona pratica sarebbe arginare tale deriva partendo dai singoli territori e contrastare le culture di semplificazione con interventi decisi a livello politico per poter riorganizzare in ogni dove interventi sanitari in linea con le indicazioni  date a sostegno e a garanzia dei diritti di cittadinanza dei più deboli che non possono più essere ridotti a esclusiva diagnostica, trattamenti ambulatoriali, farmacologici e riabilitativi di solo intrattenimento.

(da Alto Adige, 28/6/21)