dal corriere del Trentino 29.12.2023

Dottor Claudio Agostini, lei è direttore del Dipartimento di salute mentale dell’Azienda sanitaria di Trento, com’è diventato psichiatra?

«Ho fatto lo scientifico, sbagliando: non ero portato per la matematica. Ero indeciso tra filosofia e l’accademia d’arte. Mi sono risolto per medicina dopo aver conosciuto Franco Basaglia…».

Racconti.

«Era il 1973, facevo terza liceo. Un mio amico era cugino dell’artista Vittorio Basaglia – quello del celebre Marco Cavallo, il grande cavallo costruito nel manicomio di Trieste – a sua volta cugino di Franco Basaglia. Grazie a questi agganci un giorno salimmo sul treno e andammo a trovarlo a Venezia. Restammo una giornata intera».

Cosa ricorda?

«Una bella casa borghese. Un gran via vai di intellettuali. Discussioni importanti. La Politica. La Società. Husserl. Heidegger. Minkowski. Capivo poco o niente, rimasi folgorato da quel fermento. Intuii che lì si stava rifacendo il mondo. Sa, io nel Sessantotto avevo undici anni: troppo piccolo per la rivoluzione. La vera rivoluzione cui ho dedicato la vita è stata quella basagliana».

Ci sono anche gli anti-basagliani, però.

«Mi è capitato di visitare il manicomio di Niš, in Serbia e ho ritrovato la stessa miseria di un tempo. I matti con i capelli a zero, per evitare i pidocchi. Lo stesso odore. Lo stesso orrore. Basaglia si ritrovò nel manicomio di Gorizia e seppe scandalizzarsi. La genialità in fondo è questa: non una capacità intellettiva, ma la non-uniformità a un sistema. No. Per quel che mi riguarda, io non ho dubbi».

Non lo incontrò mai più?

«Mai. Ma quel giorno a Venezia mi rimase dentro. Nel ’76 mi iscrissi a medicina. Nell’80 ero tirocinante in psichiatria. Sono 43 anni che sto coi matti».

Se lo ricorda il primo paziente?

«Il primo giorno ero preoccupato. I camici erano stati aboliti: matti, dottori, parenti erano tutti mescolati. “Come farò a riconoscerli?”. A un certo punto, vidi un signore con una patacca di unto sulla giacca grossa come un’arancia. “Eccone uno!”. Aspettò mezz’ora prima di rivelarmi che era un professore… Posso raccontarle un’altra storia che racconto sempre?».

Certo.

«Una mia paziente s’era inventata una lingua tutta sua: sintassi italiana, ma infarcita di neologismi. Un giorno mi disse: “Dottore, bisogna detonettáre le disglande nella mia pancia!». Io perplesso. “Detonettáre..”. Una via di mezzo tra “détonare” e “nettáre”. Feci un tentativo: “Possiamo tradurlo con ‘sminamento?”. Lei mi guardò, come dire: “Ma allora non sei completamente stupido”. Disglande però non riuscivo a capirlo. Persi la pazienza. Le mostrai lo Zingarelli. “Disgiunto… disgiuntore… disgiungere… disglande non c’è!”. Lei mi guardò, come dire: “Ma allora sei proprio scemo. Ti ho detto che sono nella mia pancia, pensi di trovarle nel vocabolario!?”. Fu una lezione. Aveva dato un nome a un problema che sentiva dentro di sé».

La mente è ancora un mistero, insomma.

«Io penso che ogni uomo per campare ricorra a delle strategie, e che la follia sia una di queste».

Se uno psichiatra iniziasse a sviluppare una malattia mentale, se ne renderebbe conto?

(Sorride) «Credo che in tutti i mestieri ci sia una radice autobiografica, nel nostro ancor più. Ogni psichiatra nasconde qualche fragilità. Alcuni ne sono consapevoli e cercano di mettere a frutto le ombre della loro anima senza vergognarsene. Altri nella professione cercano un antidoto. “Se sono psichiatra, non posso essere malato”. Questi sono pericolosi. Questi, presumo, se dovessero diventare matti non se ne renderebbero conto».

Senta dottore, perché i giovani oggi sono così fragili?

«Non vorrei sembrare vecchio, o peggio: banale. Ma non ci sono dubbi: negli ultimi dieci anni abbiamo assistito a un’esplosione di disagio. Nel 2014, in Trentino, i primi accessi in psichiatria nella fascia 14-24 anni erano 196. Nel 2023, 506».

Colpa di internet?

«Ci sono tante ipotesi. I social. La pandemia. Il fatto che spesso oggi i giovani crescono sotto una campana di vetro e alla prima difficoltà vanno in crisi».

Si parla tanto di patriarcato: il maschio vede svanire il suo ruolo e perde la testa?

«Sono d’accordo con la prima parte. Il ruolo maschile si va assottigliando: chi ha meno strumenti, culturali, intellettivi e emotivi, fa più fatica. Ma raramente i femminicidi sono malati. Il punto è che il Male esiste, purtroppo».

Grazie, dottore. Abbiamo finito.

«Scriva questo, allora. Il grande merito di Basaglia è stato spostare l’attenzione dalla malattia alle persone. Dei pazienti, a me interessano le esistenze, gli affanni. “Le piccole cause che muovono i piccoli cuori”, avrebbe detto Verga. Se per 43 anni avessi dovuto occuparmi solo di quadri clinici, mi sarei annoiato a morte».