Quando ci siamo sentiti con Peppe dell’Acqua a seguito della pubblicazione di un mio contributo sul sito Psicologia Fenomenologica, è stata una ventata di aria fresca. Pochi giorni dopo la sua pubblicazione infatti, la bocca del vulcano era stata già cementificata, la crisi già “gestita”: i tablet per le videochiamate sono arrivati negli SPDC e i tribunali hanno definito la procedura dell’audizione. Tutto in ordine quindi. 

La chiamata con Peppe e la sua gentile richiesta di far circolare le mie poche parole anche nei circuiti del Forum di Salute Mentale, mi hanno ridato una lieve speranza. Mantenere acceso il fuoco della postura critica, custodire il fuoco. 

Nella speranza che questo articolo, sia articolato con altri, ma soprattutto con le pratiche quotidiane, e con una nuova forma di attivismo e autoformazione in presenza che riprenda a veleggiare anche se di notte sotto nuove costellazioni di riferimento, che a ben vedere si stanno già formando. Ho ripreso l’articolo, e spedito a Peppe, leggermente smontandolo e rimontandolo, integrandolo con un cenno alla mia costellazione di riferimento. Che possa essere un articolo-spazio, in cui reti e dispositivi, anche conflittuali, ma sempre in dialogo, possano ritrovarsi a fare e pensare, a fare e pensare.

La recente sentenza della Corte Costituzionale n. 76/2025 ha fatto tremare il terreno sotto i piedi a una parte della psichiatria italiana, ha riaperto la bocca del vulcano al di sotto di pratiche ormai cerimoniali del “ si è fatto sempre cosi”, dei rituali spenti che non fanno stare bene nessuno, neanche i “tecnici”. Come descrive benissimo Castel, la psichiatria (a partire dai suoi primi vagiti, l’alienismo) aveva permesso di definire un dispositivo solido e potente in quanto extragiuridico che permette ancora oggi il funzionamento dell’intera articolazione dei sistemi familiari, amministrativi, giudiziari nel rapporto con la differenza deviante, con il radicalmente Altro. Pochi giorni fa invece la Corte Costituzionale, ha riportato al centro della cura i diritti, ed ha dichiarato parzialmente incostituzionali gli articoli 33, 34 e 35 della legge 833/1978, nella parte in cui non prevedono la tempestiva notifica al paziente del provvedimento sindacale che dispone il TSO e della successiva convalida del giudice tutelare, né la sua audizione prima della convalida stessa. Ritorna centrale il tema dell’ascolto della persona interessata. Della dignità giuridica della persona direttamente interessata. 

“Io ti ho sempre creduto”, dice Fabietto alla zia “matta” nell’ultima scena del film “È stata la mano di Dio”.

Invece di aprire un dibattito sul significato di questa decisione, molti colleghi hanno reagito con incredulità, allarme e persino fastidio. “Così ci impediscono di curare”, “si mette a rischio la sicurezza”, “il paziente non è in grado di capire”, “la psichiatria viene delegittimata”. Oppure subito si sono messi a cercare di proceduralizzare, burocratizzare la bocca incandescente del vulcano che la pronuncia ci ha riaperto sotto i piedi: “dove si incontrano con il Giudice?”, “funziona internet in SPDC e abbiamo la piattaforma per la videochiamata?”, “ma chi lo paga l’autista al Giudice?”.

Frasi ricorrenti, spesso dettate da una cultura clinica forgiata più sulla prassi che sulla riflessione critica, più sulla procedura che sulla garanzia. Eppure, la Corte non dice che il TSO va abolito. Dice qualcosa di molto più serio e difficile da accettare: il TSO, in quanto misura che priva la persona della libertà personale e della possibilità di autodeterminarsi rispetto alle cure, può essere legittimo solo se è rispettato il pieno quadro delle garanzie costituzionali (artt. 13, 24, 32, 111 della Costituzione e artt. 6 e 13 della CEDU). In altre parole: non basta che il trattamento sia “per il suo bene”, se non si assicura il diritto della persona a sapere, comprendere, difendersi, essere ascoltata. Il diritto alla cura deve sempre essere articolato e in equilibrio con tutti gli altri diritti (e doveri) che la persona esercita. Insomma, non abbiamo a che fare soltanto con un paziente, ma primariamente con un cittadino, e ancora più in profondità con una persona.

Ah magica frase “lo faccio per il tuo bene”, quanta violenza ha generato e continua a generare!

Per chi di noi ha fatto TSO per decenni come gesto tecnico o amministrativo, è una rivoluzione, è un pugno nella pancia, “Dottore quindi fino ad oggi abbiamo sempre sbagliato?”. Momenti come questi non impattano soltanto sulle pratiche, ma sono strappi identitari, sono messe in discussione radicale del proprio posizionamento.

Eppure è anche un ritorno all’essenza stessa della legge 180, che non vietava il TSO, ma lo de-istituzionalizzava, lo riconduceva a un atto clinico eccezionale, e non a uno strumento ordinario di controllo.  Sotto la patina di urgenza sanitaria, il TSO si è consolidato negli anni come paradigma della psichiatria pubblica: dispositivo normalizzante, spesso legittimato da un sapere clinico che si sottrae al confronto con la persona e con la società. La sua forza si fonda su un’idea tanto potente quanto ambigua: che la crisi psichica sia un’urgenza sanitaria, paragonabile a uno scompenso glicemico o a un’insufficienza respiratoria. Ma questo parallelismo è fallace. La crisi in psichiatria non è come lo scompenso glicemico. E i farmaci che utilizziamo non sono paragonabili a quelli utilizzati per l’ipertensione o il diabete. Infatti il paradigma neo-kraepeliniano è ormai stato sfatato dai suoi stessi estensori e il modello esclusivamente biomedico si è dimostrato totalmente fallace. Gli psicofarmaci, come sappiamo benissimo nella pratica clinica, hanno una funzione principalmente sintomatica in quanto agiscono esclusivamente come molecole psicotrope che alterano lo stato di coscienza. Inizialmente, e a ragione, gli psicofarmaci infatti venivano definiti come tranquillanti maggiori e minori, e stimolanti. Definire un farmaco “antidepressivo” o “antipsicotico”, se aveva senso agli inizi degli anni ’80, nell’epoca della rivoluzione della psicofarmacologia, del mito della genetica e delle neuroscienze, non lo ha più ai giorni nostri dopo che la ricerca scientifica ha definito che “il gioco non vale la candela”. Il modello interpretativo ormai dominante quindi è oggi quello bio-psico-sociale che ripensa il disagio psichico (o la disabilità psico-sociale) in relazione a una dimensione di vulnerabilità biochimica, fragilità psicologica a seguito di traumi e conflitti, povertà nei determinanti sociali. Non è quindi misurabile con un parametro biochimico. Non è curabile con un bolo farmacologico. La “S” di “sanitario”, nel TSO, finisce per mascherare una realtà ben più complessa: sofferenze che sono sociali, relazionali, simboliche, storiche. 

Il gesto del ricovero forzato, anche se tecnicamente fondato, ha spesso la funzione di neutralizzare il perturbante: la povertà, la solitudine, la marginalità, l’espressione non codificata del dolore. Il fastidio al centro della piazza di domenica mattina. Così, il ricovero coatto diventa l’epicentro di una psichiatria della separazione. Come osserviamo in molti operatori, negli SPDC si incontrano “solitudine, problematiche familiari, problemi economici, demenza, disabilità intellettive, migranti senza mediazione culturale”, molto più che crisi psicotiche acute. Il ricovero viene prescritto là dove fallisce il tessuto sociale, e il gesto clinico diventa surrogato del legame, un suo analogo.

Ecco perché penso che non basta riformare il TSO. Bisogna disarmarlo, smontarlo, disassemblarlo. E per farlo occorre guardare la sua funzione reale: quella di anestetizzare il rischio, proteggere le istituzioni, garantire una (presunta) normalità. È l’unico strumento che per efficacia e tempi rapidi riesce a liberare il decoro urbano dal suo fastidio del momento. I carabinieri, la polizia municipale se non in presenza di un reato procedibile d’ufficio non hanno assolutamente il potere psichiatrico-medico. Bastano infatti due medici ad oggi, un foglio di carta, una chiamata al 118 e la persona, in presenza di una ordinanza sindacale, viene caricata e portata nel PS più vicino e ricoverata (spesso automaticamente, pur essendo sempre opportuno una previa accettazione in PS) in SPDC per 7 giorni. E’ uno degli strumenti cardine del Giano Bifronte della psichiatria, che da una parte è convocata a prendersi cura dei bisogni dell’utenza, dall’altra è demandata a gestire i problemi del corpo sociale, il suo ordine.

Nessuno ad oggi ha questo potere. Anche a seguito di un reato importante i tempi di “detenzione” sono minori e la necessità di interagire con un avvocato rende i tempi di “catture” molto più lunghi. Il TSO è, oggi, una tecnologia di isolamento terapeutico. È stato il cuore dell’alienismo, il motore della psichiatria manicomiale, e ancora oggi, al di là delle retoriche, resta un dispositivo centrato su tre assi: l’internamento-isolamento sanitario, l’autorizzazione amministrativa-giudiziaria, l’esecuzione poliziesca, la deresponsabilizzazione della famiglia e della comunità locale. La malattia è nell’individuo, tutto il contesto relazionale non conta. 

Grazie alla firma medica, il deviante è finalmente in tempi record sequestrato sotto il velo della cura.

“E se poi succede qualcosa?”. Ovvio che la vita indocile e inappropriabile di alcune soggettività che incontriamo rende impossibile mantenere una posizione eticamente comoda e scientifica a molti di noi, nel momento in cui ancora ci viene riconosciuta una posizione di Garanti. Mors tua vita mea, non posso rischiare la denuncia o il contenzioso in tempi così securitari. O no? Con questo bias e fantasma che circola nella testa di noi psichiatri, come facciamo a fare diversamente? Ci vorrebbe solo altra follia, che molti di noi non possono (e forse giustamente) permettersi. “E se poi succede qualcosa?”, è la domanda che spezza qualsiasi forma di relazione orizzontale, che gerarchizza e rende abissale il problema del potere e dell’ascolto.

A chi obietta che “non abbiamo alternative”, si può rispondere che le alternative esistono, ma non sono ancora diventate sistema: penso alle pratiche dialogiche e ai gruppi multifamiliari, all’epistemologia della comunità terapeutica democratica e al supporto tra pari nella facilitazione di relazioni informali. Ma tutto questo richiede un passaggio: dalla delega alla co-costruzione, dal potere alla responsabilità. E la sicurezza che in alcune situazioni esistenziali limite, nessuno di questi strumenti sarà abbastanza. Serve una formazione radicale, continua, incarnata. Serve un attivismo che si prenda cura delle pratiche, che le metta in discussione, che esponga il proprio stesso ruolo alla critica. Serve la disponibilità a “rinunciare alla S”, non per negare la dimensione clinica, ma per riconoscerla come situata, sempre intrecciata al contesto, mai neutra. “ Me lei quindi non è un vero medico?”, accettare il dolore della perdita della corona. O appunto ripensare tutto l’impianto medico in un ottica relazionale e dialogica.

Il tempo presente apre un varco. Non è solo il momento della compliance procedurale – organizzare l’audizione, notificare correttamente – ma dell’interrogazione profonda su noi stessi in quanto operatori. La sentenza ci chiede di credere nella persona in crisi. Di non partire dall’assunto che “non può capire”. Di non presumere l’incapacità come condizione di partenza. “L’altro è capace di intendere e di volere, fino a prova contraria”. Se non partiamo da qui, non c’è etica possibile. Ciò che si intravede – nel diritto, nella pratica, nella parola – è forse una nuova semantica della cura. Non più come esercizio di protezione, ma come pratica di diserzione dal potere. Non più come risposta alla devianza, ma come costruzione di un’altra possibilità. Non più “per il tuo bene”, ma con te, nella tua possibilità.

“Non possiamo più fare TSO?” No, non come prima. E forse è una buona notizia.

Il TSO non può essere salvato con una riforma. Può solo essere smontato, trasformato, superato.  Perché non è solo un dispositivo tecnico, ma una forma di pensiero. E ciò che oggi viene messo in discussione, dalla Corte, dai documenti internazionali e da molti dei movimenti dei “survivors”, è proprio questa forma. Perché la cura diventi davvero possibile, occorre liberarla dal recinto del trattamento. Aprirla all’incontro. All’ascolto. Alla vulnerabilità condivisa. È tempo che la psichiatria si guardi allo specchio e decida se vuole ancora abitare il paradigma della custodia, o se intende finalmente praticare quello dell’emancipazione. O almeno, di un tentativo. Il paradigma emergente nella salute mentale che questo momento epocale indica, si fonda su una rivoluzione culturale già in atto in altri ambiti della disabilità: il passaggio da un’ottica clinica e patologizzante a un modello basato sui diritti umani, sulla persona, sulla rimozione delle barriere e la costruzione di sostegni.

Non si tratta solo di una prospettiva etica o politica, ma di un orientamento oggi sancito da strumenti giuridici vincolanti: la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (CRPD), ratificata dall’Italia nel 2009, e il recentissimo Decreto Legislativo 62/2024, che recepisce la riforma della Legge 104 e rivoluziona la valutazione della disabilità introducendo in modo esplicito i concetti di “barriere” e “sostegni”. Questo approccio segna il superamento definitivo della centralità diagnostica e della gravità clinica: la persona non è più definita dalla sua menomazione o dalla gravità della “malattia”, ma viene riconosciuta nella sua interazione con l’ambiente sociale, culturale e relazionale. È un cambiamento radicale, che investe anche la salute mentale, dove ogni strumento coercitivo perde legittimità e spazio.

Come ci insegnano le riflessioni di Cecilia Marchisio e Natascia Curto sul paradigma ICF e sui progetti di vita personalizzati e la coprogettazione partecipata, o le analisi di Ciro Tarantino sul nesso tra disabilità, marginalità e saperi situati, la sfida è trasformare le istituzioni e le pratiche: non più luoghi di contenimento, ma cantieri di libertà concreta. E in questa direzione ci guidano anche i lavori del costituzionalista Daniele Piccione, che mostra come la CRPD non sia solo un vincolo esterno, ma una bussola per attuare pienamente la nostra Costituzione nei suoi articoli più profondi: il diritto all’autodeterminazione, all’inclusione, all’uguaglianza sostanziale.  Anche nel lavoro clinico quotidiano, il cambiamento è profondo. Non cerchiamo più sintomi e gravità, ma bisogni, desideri, ostacoli, possibilità. La diagnosi non è più il centro. Il farmaco non è più un anti-malattia, ma può diventare un sostegno, dentro un progetto condiviso. Le certificazioni non indicano più “terapia”, ma sostegni necessari per rimuovere le barriere.

È un’altra psichiatria. Più difficile, più umana, più giusta.

È forse il lavoro più bello del mondo. E può iniziare da un mantra semplice in ogni incontro, quasi infantile, ma potentissimo: “Aspirazioni, barriere e sostegni. Aspirazioni, barriere e sostegni”. Niente altro. Non più molecole da riequilibrare, piazze cittadine da tenere decorose, strutture “riabilitative” da cercare in tutta la regione, aggressioni e violenze per una diagnosi non accettata (dissenso diagnostico, non “assenza di insight”). 

Facendo questo, d’altronde, non andremmo a deludere il nostro padre monumentalizzato e ventriloquizzato negli ultimi 50 anni. Il francobollo attaccato alle buone pratiche come lasciapassare alla dogana. Basaglia non è infatti il tecnico che ha scritto la 180, ma che ha saputo mettere dolorosamente in crisi lo statuto di scienza neutra della psichiatria, svelarne i mostri e le contraddizioni, aprirne la pancia e ritrovarne i riflessi di un’infezione sistemica che influenza i rapporti con il radicalmente Altro nelle società neoliberali. Ed è il tempo quindi non di celebrare Basaglia anacronisticanente, ma di riprenderne il “basagliare”, la dimensione pratica-sperimentale-teorica, il coraggio di un’utopia che non si vuole condensare semplicisticamente in buone pratiche, ma che vuole costantemente trasformare la realtà e sè stessi.

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